Ludwig Wittgenstein fu uno dei più grandi esponenti della filosofia del linguaggio del ‘900 e nella sua opera principale, il Tractatus Logico-Philosophicus, scrisse questa celebre frase: “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Questa osservazione sul linguaggio e il rapporto tra esso e la realtà ci porta a riflettere sul modo in cui possiamo espandere i nostri orizzonti mentali e cognitivi attraverso il linguaggio e sull’importanza e il peso di dare un nome a quello che percepiamo dentro e fuori di noi.

 

1. Il Tractatus Logico-Philophicus

Il Tractatus Logico -Philosophicus fu pubblicato nel 1921 e fu l’unica opera edita in vita da Ludwig Wittgenstein. Nonostante questo, il Tractatus divenne uno dei testi principali di filosofia del linguaggio e della logica. La genesi del Tractatus è da ricercare nell’interesse di Wittgenstein per la filosofia della logica e per la matematica, aumentato dopo la lettura dei Principia Mathematica di Bertrand Russel (altro noto esponente della filosofia del linguaggio e maestro di Wittgenstein).

Una caratteristica peculiare di questo testo è il modo in cui è strutturato: il discorso attorno alla natura del linguaggio e al suo rapporto con il mondo si articola in sette proposizioni principali, ognuna delle quali viene argomentata con altre proposizioni elencate in modo gerarchico. Le sette asserzioni principali sono:

1. Il mondo è tutto ciò che accade.

2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.

3. L’immagine logica dei fatti è il pensiero.

4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.

5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.

6. La forma generale della funzione di verità è: [p ¯ , ξ ¯ , N ( ξ ¯ ) ]1 . Questa è la forma generale della proposizione.

7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.2

Le argomentazioni a queste proposizioni, come detto, vengono esposte in modo gerarchico, per cui avremo ad esempio: “1.1. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”3; oppure la frase che da il titolo a questo articolo “5.6. I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”4. Questa frase si articola a sua volta in altre proposizioni, in modo da poterla comprendere meglio, come “5.62 […] Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (dell’unico linguaggio che io comprenda) significano i limiti del mio mondo”5; “5.633 Il soggetto non è parte, ma limite del mondo6; “5.64 […] L’Io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, che è non una parte, ma il limite del mondo”7.

Il testo di Wittgentein tratta dunque di linguaggio, ma non solo da un punto di vista logico. Dire che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo è prendere una posizione filosofica importante nei confronti di ciò che consideriamo realtà e soprattutto del rapporto tra ciò che è nel mondo (oggetto) e ciò che è il soggetto. Significa avvallare la tesi secondo cui il mondo è una rappresentazione del soggetto, o comunque è determinato dal soggetto che lo guarda. Il relativismo ha trovato molti sostenitori nel corso del ‘900, anche grazie al fatto che la scienza, in particolare la fisica, ha dimostrato come una serie di costanti, considerate fino ad allora stabili e oggettive, siano in realtà condizionate da ciò che le circonda; prima fra queste il tempo, che nel corso del secolo scorso ha subito una graduale deframmentazione divenendo qualcosa di mutevole e relativo secondo la gravità.

Secondo Wittgenstein, quindi, il linguaggio determina i limiti del mio mondo, i miei orizzonti, ciò che percepisco: come posso però espandere i limiti del mio mondo?

2. La creazione del linguaggio e la percezione delle differenze.

Il linguaggio è l’orizzonte degli eventi del mondo di ciascuno di noi. Se possiamo pensare una cosa e darle un nome la possiamo anche percepire. Ma è nato prima il linguaggio o la percezione? Noi percepiamo il mondo e tutte le sue sfumature, al tempo stesso decidiamo di dare un nome specifico solo ad alcune delle cose che percepiamo. Quello che accade è di operare una sintesi, mettendo da parte le piccole differenze tra un oggetto e un altro, tra una situazione e un’altra, per dare un unico nome a cose che sono diverse tra loro. Ad esempio, percepiamo bicchieri diversi tra loro (uno verde, uno rosso, uno un po’ più largo e uno un po’ più sottile) eppure li chiamiamo tutti “bicchiere”. Utilizzando la parola “bicchiere” operiamo una sintesi, passiamo dal particolare al generale, estraiamo quelle che sono le caratteristiche comuni di tutti quegli oggetti e li facciamo rientrare sotto la stessa categoria di “bicchiere”.

Oltre all’operazione di sintesi, quello che accade nella formazione del linguaggio è la scelta tra l’utilizzare una parola specifica per un evento, un oggetto, un sentimento, oppure optare per la costruzione sul momento di un termine composto. Un esempio può essere il fatto che non abbiamo creato una parola specifica per distinguere l’amicizia tra due persone dello stesso sesso piuttosto che quella tra due uomo e donna, le chiamiamo entrambe amicizia e tuttalpiù aggiungiamo una specifica come corollario. Nella creazione del proprio linguaggio un popolo sceglie le differenze che considera rilevanti e cosa far ricadere nello stesso sottoinsieme. In questo senso il linguaggio utilizzato da un certo popolo, e poi nello specifico da una determinata persona, ci permette di capire quali sono i limiti del mondo che percepiranno. Chiamare due cose con lo stesso nome è come dire che sono la stessa cosa. Questo su un piano ontologico ha delle conseguenze importanti, quegli oggetti o quei tipi di eventi diventano uguali e in un certo senso diventano lo stesso evento e lo stesso oggetto. Avere un solo nome per parlare di una determinata situazione significa scegliere di non percepire più, o comunque di non considerare più come importanti, le sottili differenze che esistono tra gli oggetti, le situazioni e gli eventi.

Con queste premesse possiamo dire che un popolo, o una persona, con un linguaggio povero di termini sarà un popolo incapace di percepire e valorizzare le differenze, superficiale nel modo di descrivere il mondo e di descrivere se stessi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il linguaggio è utilizzato per comunicare con le altre persone ma anche per comunicare con noi stessi e per autodefinirci. Avere poche parole ci porta a perdere anche le nostre sfumature, le differenze tra l’essere felici, sereni, appagati, estasiati o eccitati per una novità: diventa tutto un piatto “sto bene”.

Riprendendo la domanda di prima, è nata prima la percezione o il linguaggio, sosteniamo che sia nata prima la percezione, in quanto evento che accade al di fuori della nostra volontà, a differenza del linguaggio. Abbiamo anche visto però che non nominiamo tutto ciò che percepiamo, e che ogni popolo sceglie cosa far ricadere nella stessa categoria e cosa no. In questo senso, in un secondo momento, è il linguaggio a diventare prioritario rispetto alla percezione. Accade infatti che, sostanzialmente per abitudine, finiamo con il percepire solo quello che siamo abituati a percepire e, soprattutto, a nominare. Se anche percepiamo una cosa nuova, differente, finiremo con il farla ricadere nella parola più simile che già conosciamo, sacrificando la differenza a favore delle somiglianze. In questo modo i limiti del mondo di una persona rimarranno sempre gli stessi, con un margine di crescita molto basso, dimenticando le grandi e piccole differenze.

3. Espandere i limiti del proprio mondo attraverso il linguaggio

Come fare quindi per espandere i confini del proprio mondo? Sicuramente entrare a contatto con altre culture, viaggiare, aprirsi all’arte e alla musica sono attività che possono espandere molto i propri confini mentali. Al tempo stesso, se noi facciamo esperienze nuove ma poi le memorizziamo e le comunichiamo utilizzando sempre le stesse parole riporteremo il nuovo dentro il vecchio. Insieme alle esperienze nuove servono parole nuove, oppure, in alternativa, la consapevolezza di non poter utilizzare parole adatte ad esprimere l’esperienza fatta.

Per espandere il proprio vocabolario (e poter così comunicare a se stessi e agli altri le nuove esperienze senza farle ricadere nei vecchi concetti) è ovviamente molto importante leggere, andare a cercare sul dizionario le parole che non si conoscono, cercare di utilizzare nel linguaggio quotidiano sinonimi e parole desuete. In particolare l’utilizzo dei sinonimi è molto interessante: utilizzare una parola piuttosto che un altra equivalente, significa scegliere di accentuare una determinata caratteristica di quell’oggetto/evento/situazione; significa comunicare qualcosa che va oltre il significato della parola in sé, si comunica quello che per noi è importante in quel momento, in riferimento a quel determinato oggetto/evento/situazione.

Un’altra cosa interessante per comprendere come il linguaggio determini il nostro mondo e come esso può farci capire anche come ragiona e che cosa è importante per un determinato popolo, è lo studio delle lingue straniere. Esistono parole in altre lingue che in italiano sono intraducibili. Queste parole non hanno un corrispettivo nella nostra lingua perché durante la formazione del nostro linguaggio abbiamo operato un processo di sintesi che in altri popoli non è avvenuto, e viceversa. Alcuni esempi di parole straniere intraducibili sono8:

Dauwtrappen (Olandese): camminare a piedi nudi sull’erba di mattina

Iktsuarpok (Inuit, dal popolo dell’artico): l’anticipazione dell’attesa per qualcuno che si ama

Gluggavedur (Islandese): ammirare le condizioni del tempo da una finestra

Songimvelo (Swati, Africa meridionale): conservare, curare o nutrire la natura

Hulya (Turco): una giornata da sogno che porta felicità

Queste parole possono suggerirci già molto su come questi popoli percepiscano il mondo. Il fatto che in olandese esista una parola specifica per dire “camminare a piedi nudi sull’erba di mattina” ci fa dedurre che per il popolo olandese, se non oggi almeno in antichità, fare questa operazione era una cosa comune e in un certo senso importante. Ecco che quindi viene sottolineata una differenza tra “camminare” e “camminare a piedi nudi” e ancora “camminare a piedi nudi sull’erba di mattina”. I confini del mondo percepito da un olandese saranno quindi diversi, ad esempio, da quelli di un turco, il quale ha una parola per dire “una giornata da sogno che porta felicità” ma magari non ne ha una specifica per intendere “camminare a piedi nudi sull’erba di mattina”, probabilmente anche per questioni meteorologiche non indifferenti.

4. Fino a che punto dare un nome diverso ad ogni cosa espande i confini della propria realtà?

Fin qui abbiamo parlato di come il dare un nome ad ogni cosa possa espandere i limiti del nostro mondo. Ora vorremmo riflettere su come questa operazione analitica (dal generale al particolare) possa anche causare una perdita di omogeneità nella realtà, allontanare dalla percezione di unità del tutto, che non è mai la semplice somma delle parti.

Un esercizio estremo del processo analitico può portare, per assurdo, a nominare ogni bicchiere di una stanza, anche se uguale per forma, colore e dimensione, con una parola a se stante. Questo perché, sempre estremizzando, nel processo analitico decidiamo di dare più peso alle differenze che alle somiglianze, e per questo ogni bicchiere della stanza è un bicchiere unico e particolare, irriducibile ad ogni altro bicchiere, e quindi nominabile con una parola tutta sua. Questo processo può portarci a limitare nuovamente i confini del nostro mondo, perché è vero che avremmo una parola per ogni singolo oggetto dato in un certo momento, ma queste parole difficilmente saranno utili alla comunicazione. Quello che è importante mantenere e considerare è un equilibrio tra il processo sintetico e quello analitico, in modo che somiglianze e differenze vengano ugualmente considerate. Se estremizziamo la sintesi non avremo abbastanza parole per gustare e comunicare l’immensa varietà del mondo; al contrario se saremo troppo analitici ci perderemo quel sentimento di unità, appartenenza e totalità che ci permette di essere in connessione con gli altri e anche con noi stessi.

 

 


1  I simboli utilizzati significano: tutto ciò che è complicato può essere ricavato da ciò che è semplice.

2  L. Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus, Einaudi Torino 2009.

3   Ivi, p. 25.

4   Ivi, p. 88.

5   Ibidem.

6   Ivi, p. 89.

7   Ivi, p. 90.

8   18 parole straniere non tradotte in italiano che occorre conoscere (libreriamo.it)